Barcellona, la Catalogna, e la voglia d’indipendenza.

Barcellona, la Catalogna, e la voglia d’indipendenza.

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Negli ultimi anni Barcellona è diventata una delle mete più ambite dai turisti di tutto il mondo. La città grazie al suo clima mite, alle bellezze naturali e architettoniche e a un’offerta culturale di rilievo ha visto aumentare senza sosta i visitatori e, anche in tempi di crisi, gli hotel continuano a registrare il tutto esaurito.

L’amministrazione locale, soddisfatta dai risultati ottenuti, ha persino brevettato la marca Barcelona in modo che le imprese private possano utilizzarla a fini commerciali solo previa autorizzazione del comune (gratuita), e sono sempre più numerose le firme della moda e non che decidono di aprire un negozio nel centralissimo Paseo de Gracia, ormai invaso da cittadini russi con il portafoglio gonfio.

La fama della città è ormai radicata anche in Italia tanto che ogni volta che ritorno in patria c’è qualcuno che mi ripete: “Beata te che vivi in Spagna, Barcellona è una città stupenda”.

Sì, è stupenda, ma il turista poco informato la confonde spesso con una realtà, quella spagnola, che non le appartiene. La lingua castigliana (lo spagnolo), il flamenco, la corrida e persino la paella o la famosa “siesta” sono ben diverse dalla cultura e dalle tradizioni locali. Quella catalana, è bene saperlo, è una regione che si sente ogni giorno più lontana da Madrid.

Spiegare la “questione del catalano” è tutto meno che semplice perché sono molti i fattori che hanno contribuito a crearla. La lingua è solo la più evidente tra le ragioni del contrasto con lo stato centrale dal quale sempre più persone dicono di volersi separare, ma non è certo la fonte più importante dei dissidi.

L’11 settembre scorso, in occasione della Diada, la festa nazionale dell’autonomia catalana, circa un milione e mezzo di persone ha sfilato pacificamente per le vie di Barcellona invocando l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna. Solo qualche gruppo estremista si è dedicato allo sport preferito da tutti i nazionalismi: bruciare le bandiere dei nemici, ovvero quelle spagnole e dell’Union Europea. La straordinaria adesione alla manifestazione ha sorpreso gli stessi organizzatori dell’Anc (Assemblea nazionale catalana) che forti di questa massiva partecipazione ora invocano un referendum che confermi la volontà separatista dei cittadini.

Agli occhi di un’osservatrice imparziale come la sottoscritta i pullman stracolmi di famiglie con bambini e bandiere catalane che hanno invaso Barcellona la scorsa settimana appaiono come la triste conferma che in tempi di crisi il miglior modo per distrarre la gente è trovarle un nemico comune e riversare addosso a quest’ultimo le colpe di tutti i mali. Nella fattispecie il diavolo veste i panni di Mariano Rajoy e del suo governo, accusato di boicottare la lingua e la cultura catalane e, soprattutto, di non riconoscere alla Catalogna un regime fiscale ad hoc.

Scavando appena sotto la superficie delle rivendicazioni linguistiche e culturali (non è certo colpa di Rajoy se all’epoca della dittatura di Franco il catalano era proibito) si scopre infatti che il vero problema è di natura economica. Con il 22% di disoccupazione e un deficit superiore di 42 milioni di euro (il 21% del Pil) la Catalogna vede l’economia cadere in ginocchio ogni giorno di più e alla fine di agosto, quella che dovrebbe essere la regione più ricca di Spagna, è stata obbligata a chiedere un aiuto di 5 miliardi di euro a Madrid.

Il 20 settembre il presidente catalano Artur Mas è atteso alla Moncloa per discutere il cosiddetto patto fiscale, ma i margini di accordo sono ridottissimi poiché Rajoy ha più volte dichiarato di non voler modificare il sistema di finanziamento delle regioni autonome approvato nel 2009 (anche con il voto catalano), almeno fino alla fine del 2013. Secondo il capo del governo, infatti, in questo momento di crisi qualsiasi sistema fiscale darebbe risultati identici poiché, con una caduta del 70% delle entrate tributarie, le casse dello stato sono ormai vuote.

Anche il re Juan Carlos è intervenuto per placare gli animi e in una lettera aperta pubblicata sul sito della Casa Reale ha invitato gli spagnoli a restare uniti evitando di inseguire chimere e di rendere più profonde le ferite.

Con una situazione di questo genere, che chiunque risieda da queste parti può confermare empiricamente perché avrà almeno un parente, amico o conoscente (se non egli stesso) che ha perso il lavoro e non ne trova un altro, è naturale che il governo nazionalista catalano (Ciu) trovi terreno fertile per le rivendicazioni indipendentiste. L’ultimo sondaggio condotto dal quotidiano La Vanguardia sostiene che il 51% dei catalani oggi voterebbe sì in un eventuale referendum a favore dell’indipendenza, rispetto al 36% del marzo 2011.

La sensazione, come straniera residente da molti anni nel Paese, è che la minaccia separatista sia un tentativo poco riuscito di spaventare il governo centrale, un tentativo che riceve le critiche anche dei catalani più europeisti, consci del fatto che la crisi economica da un lato e le politiche nazionaliste esasperate dall’altro, allontanano imprese e investitori e attirano le antipatie della comunità internazionale.

È di pochi giorni fa l’annuncio definitivo del gruppo Sands di Sheldon Adelson di rinunciare a Barcellona a favore di Madrid per costruire la sua ciclopica città del divertimento, ribattezzata Eurovegas, operazione che stando alle previsioni dovrebbe creare circa 200 mila posti di lavoro. Sono numerose anche le aziende multinazionali che hanno smantellato le sedi locali per trasferirsi in luoghi più favorevoli al business lasciando a piedi centinai di manager e impiegati.

Un milione e mezzo di persone è andato in piazza, è vero, ma molti degli altri sei, che costituiscono l’intera popolazione catalana, si domandano se la politica nazionalista porti da qualche parte. A tutti noi, che viviamo in questo Paese e abbiamo imparato ad amarlo, piacerebbe saperlo.

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